Dizionario Italiano Sabatini Coletti

di Francesco Sabatini, Vittorio Coletti, Manuela Manfredini

Presentazione

Questa nuova edizione del Dizionario italiano di Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, cui ora si è aggiunta Manuela Manfredini, apporta numerosi cambiamenti a un’opera che ha caratteristiche scientifiche uniche nel panorama della lessicografia italiana.

Il lemmario è stato aggiornato con l’inserimento di numerosi neologismi, per la maggior parte passati al vaglio della Consulenza dell’Accademia della Crusca, cui appartengono i due direttori storici dell’impresa. Non si è trattato di un accoglimento indiscriminato di parole nuove: a nostro avviso, il dizionario deve sempre esaminarle con cura al fine di inserire soltanto quelle che si sono affermate nell’uso e non deve trasformarsi in un deposito meramente quantitativo di occasionalismi e altre forme lessicali estemporanee, oggetto invece di siti Internet dedicati.

Ma questa edizione presenta soprattutto novità di impostazione nella struttura e nel trattamento delle voci, introdotte per rispondere ai recenti, grandi mutamenti nella cultura e nella sensibilità sociale. Abbiamo fornito per ciascun sostantivo e aggettivo, precedentemente indicati solo al maschile per tradizione lessicografica, anche la corrispettiva forma femminile (cuoco, lavoratore).

In alcuni casi, per determinati mestieri, professioni o ruoli di evidente e larga presenza sociale, abbiamo previsto voci femminili autonome, con definizioni ed esempi esclusivi e datazione propria (dottoressa, professoressa).

Oltre che per i sostantivi, abbiamo ritenuto utile fornire per esteso la forma femminile anche per gli aggettivi, superando la pratica tradizionale della lessicografia che prevedeva di offrirla solo in forma abbreviata, quando non addirittura sottintesa (dettagliato, rosso).

Il Dizionario conserva le caratteristiche, ancora oggi originali e in gran parte esclusive, che, fin dalla sua prima edizione del 1997, lo hanno fatto riconoscere e affermare come il vocabolario più avanzato nel trattamento delle parole secondo la scienza linguistica moderna.

Come si sa, l’originalità della sua impostazione è data dallo stretto collegamento tra le strutture del lessico e il movimento sintattico della lingua. L’obiettivo è infatti quello di realizzare un dizionario che si consulta non solo per controllare l’esatta grafia e la corretta pronuncia delle parole poco note o per conoscere il significato di quelle ignote, ma altrettanto, e anche più frequentemente, per essere guidati nella costruzione delle frasi e per scegliere le parole con criteri di efficacia comunicativa. Dunque, un dizionario non solo per la consultazione rapida e immediata, ma anche per lo studio approfondito della lingua grazie alla completa grammatica italiana che si trova concretamente applicata alle singole parole.

Le caratteristiche innovative inserite in questa edizione si aggiungono alle principali peculiarità del Dizionario italiano Sabatini Coletti:

1. La definizione dei diversi significati dei verbi è strettamente connessa all’analisi della loro costruzione sintattica, descritta secondo il “modello valenziale”, ormai largamente adottato nella didattica moderna.

2. Si esplicita la costruzione di aggettivi e sostantivi, quando richiedono, per introdurre l’argomento da essi retto, una preposizione non immediatamente intuibile o ne alternano più d’una, a seconda dei diversi significati.

3. Viene tenuta costantemente presente la concreta dimensione testuale della lingua, nella quale congiunzioni, pronomi e avverbi assumono valori ben diversi da quelli che hanno nell’astratta dimensione grammaticale.

4. Le informazioni sulle strutture sintattiche vengono completate con indicazioni sulla prosodia e sulla punteggiatura, anch’esse elementi costitutivi della sintassi.

5. Per diversi sostantivi sono fornite le combinazioni più frequenti con i verbi (per esempio alla voce abbonamento, vengono segnalate le combinazioni con i verbi disdire, rinnovare, scadere, sottoscrivere ecc.)

6. Un particolare sviluppo hanno le parole puramente grammaticali (pronomi, preposizioni, congiunzioni) e quelle della terminologia linguistica.

7. Sono segnalate con un pallino colorato nell’indice le parole più disponibili, cioè conosciute dalla maggioranza delle persone (un’indicazione particolarmente utile per chi comunica con il grande pubblico).

8. Sono trattate come lemmi autonomi più di mille combinazioni di parole, le unità polirematiche, che costituiscono di fatto vere unità lessicali. Quasi tutte quelle sostantivali (del tipo stato civile, stato maggiore, punto debole, punto di vista ...) e le principali tra quelle verbali (i cosiddetti verbi sintagmatici, come mettere dentro, mettere su ...) sono sviluppate in coda alla parola di testa, con un corredo di informazioni sostanzialmente uguale a quello di qualsiasi parola singola.

9. Una forte evidenza hanno, sia in lemmi autonomi che dentro le voci, le locuzioni che svolgono una funzione grammaticale, di congiunzione (come per cui, visto che, sta di fatto che, fatto sta, dal momento che ...) o di preposizione (in relazione a, nei confronti di, in virtù di, insieme con, diversamente da ...) e, all’interno della parola di testa, sono definite le parole plurime che hanno funzione aggettivale (nuovo di zecca, chiavi in mano ...) o avverbiale (corpo a corpo, in tempo reale ...).

10. Si fa il rinvio da numerosi sostantivi ai rispettivi aggettivi di relazione, quando questi hanno base etimologica diversa dal sostantivo (per esempio, da cavallo si rinvia a equino, equestre, ippico).

11. Di tutte le parole si forniscono la pronuncia (quella standard dell’italiano, con segnalazione della diffusa oscillazione regionale tra sorda e sonora di s intervocalica e di z iniziale) e la sillabazione (basata prevalentemente sul criterio di tenere uniti i gruppi consonantici attestati, anche una sola volta, come iniziali di parola).

12. Salvo rarissimi casi di incertezza, di tutte le parole, ivi comprese quelle “plurime” lemmatizzate in coda alla voce di testa, si fornisce la datazione (con indicazione del secolo fino a tutto il XVIII e dell’anno dal 1800 in poi) e si ricostruisce l’etimologia (nel caso del latino, si distingue fra tradizione popolare, indicata con “lat.”, e tradizione dotta, indicata con “dal lat.”) o la formazione da basi già italiane (tramite derivazione, composizione o cambio di categoria grammaticale).

13. Problemi grammaticali, dubbi e usi controversi sono trattati in note di approfondimento in coda alla voce, nelle quali il discorso si amplia, talora con esempi storici e d’autore, per chiarire fenomeni complessi e spesso per dimostrare che molti usi che possono sembrare deviazioni recenti in realtà sono di antica e perfino autorevole tradizione. Molte di tali note forniscono materia per vere e proprie lezioni di “analisi logica e stilistica”.

14. Si offre un’ampia raccolta di sigle, abbreviazioni, locuzioni latine e straniere.

15. Particolarmente accurata la nomenclatura, una vasta zona in cui le parole sono aggregate per affinità di significato e che consente di trovare facilmente parole dimenticate o di cui si ha bisogno per trattare un dato argomento.

Poiché la caratteristica di questo Dizionario è quella di riunire in un solo strumento un’ampia e ragionata raccolta delle parole dell’italiano, con i loro molteplici significati e la loro storia, e le informazioni necessarie per conoscere e ben adoperarne la grammatica che le lega tra di loro in frasi e testi, riteniamo opportuno illustrare con maggiore ampiezza e precisione i modelli e i principi teorici ai quali si è fatto riferimento. Le sezioni I e II che seguono mettono perciò a fuoco:

– la funzione del verbo nella struttura della frase, descritta secondo le norme basilari della grammatica (sezione I);

– le trasformazioni che si verificano quando il sistema della lingua viene impiegato per comunicare realmente e cioè nella realizzazione di un “testo” (sezione II).

La sezione III è dedicata invece a problemi e aspetti particolari del lessico.

I - LA LINGUA COME SISTEMA - LA FRASE E IL VERBO

1. LA FRASE

In questa sezione ci occupiamo del funzionamento propriamente grammaticale della lingua, ossia della lingua come sistema generale, o meglio, virtuale, funzionante secondo le regole intrinseche del sistema stesso, prescindendo dall’uso che se ne fa per comunicare concretamente in una determinata situazione.

Il funzionamento generale della lingua si coglie nell’insieme sul terreno della sintassi, se assumiamo come unità minima di osservazione la frase: nella sua forma tipo, questa è definibile come un’ESPRESSIONE LINGUISTICA CHE HA SIGNIFICATO COMPIUTO ANCHE SENZA RIFERIMENTO A UN DETERMINATO CONTESTO COMUNICATIVO. Solo analizzando la lingua in queste condizioni possiamo comprendere in modo chiaro e rigoroso il suo funzionamento.

2. IL VERBO È IL MOTORE DELLA FRASE

Si usa ancora dire che l’analisi di una frase si fa partendo dal soggetto. In realtà, il soggetto fornisce un dato importante solo per il contenuto del messaggio, mentre la sua funzione sintattica si limita a fornire la persona al verbo. È invece il verbo che, con le sue proprietà , genera intorno a sé la struttura dell’intera frase, ne è il vero motore, e quindi è anche la chiave che ci permette di spiegare tale struttura.

Questo principio è balzato in evidenza dapprima nello studio del latino ed è stato poi formalizzato, e applicato alle lingue moderne, da un linguista francese (Lucien Tesnière, 1893-1954). Questi ha messo bene in luce che il verbo, oltre ad avere le varie forme che indicano persona, numero, tempo, modo, ecc., ha una forte “carica di significato” che domina la parte centrale (il “nucleo”) della frase. Ad esempio, il verbo dare di per sé chiama dentro la frase tre elementi indispensabili, cioè necessari e sufficienti per esprimere compiutamente il concetto del “dare”: gli elementi che indicano “chi (dà )”, “che cosa (dà )” e “a chi (dà)”, con i quali si ottiene una struttura basilare, già compiuta, come in Piero dà un libro a Maria, che possiamo chiamare frase nucleare del verbo dare. Questa capacità strutturante (potremmo anche dire attrattiva) del verbo può essere messa in rilievo da una rappresentazione grafica del genere:

Facciamo altri due esempi. Con il verbo sbadigliare l’elemento fondamentale da aggiungere al verbo, per avere una costruzione minima e completa, è uno solo, quello che indica “chi sbadiglia”: Mauro sbadiglia è una frase nucleare di questo verbo. Se prendiamo il verbo piovere, ci accorgiamo che non richiede alcun elemento obbligatorio accanto a sé: piove è già un’espressione di senso compiuto, che dice tutto su quel fenomeno; è anche questa una frase.

Si tratta, come si vede, di un meccanismo linguistico molto semplice, che possiamo scoprire analizzando la nostra stessa conoscenza della lingua. Per compiere questa analisi correttamente, basta fare attenzione a due cose: 1) costruire frasi ridotte al minimo richiesto dal puro significato del verbo, cioè senza alcun riferimento a un contesto concreto e senza aggiungere particolari di altro genere (un particolare “superfluo” per il verbo dare sarebbe, nell’esempio costruito sopra, l’indicazione del “perché” o del “quando” di quell’azione); 2) rendersi conto che molti verbi hanno più significati, anche notevolmente diversi, e che perciò possono generare strutture diverse (come osserveremo più avanti analizzando il verbo andare).

3. LE “VALENZE” DEL VERBO E LA FORMAZIONE DEL NUCLEO DELLA FRASE

Con gli esempi dati finora abbiamo già inquadrato il principio basilare su cui si fonda il modello grammaticale da noi seguito. Passiamo ora a una spiegazione più in dettaglio, cominciando col definire i termini che impieghiamo:

– la caratteristica del verbo di chiamare intorno a sé alcuni elementi indispensabili per costruire la parte centrale della frase viene detta (per analogia con il comportamento combinatorio degli elementi chimici) VALENZA, e da ciò deriva il termine di grammatica “valenziale”;

– agli elementi indispensabili aggiunti al verbo in base alle sue valenze si dà complessivamente il nome di ARGOMENTI (o anche di ATTANTI), salvo poi distinguere se hanno funzioni particolari di soggetto, di oggetto diretto o di oggetto indiretto (preposizionale). Poiché il numero di argomenti varia da zero a quattro (carico massimo, a quanto pare, sostenuto dal significato di un verbo), i verbi si possono distinguere in zerovalenti (che sono gli impersonali), monovalenti (che sono intransitivi), bivalenti (che possono essere transitivi o intransitivi), trivalenti (transitivi o intransitivi), tetravalenti (solo transitivi). È utile ricordare che sono transitivi quei verbi che hanno un argomento diretto e possono essere volti al passivo e che transitività e intransitività non sono proprietà fisse di un verbo, inconciliabili tra di loro, ma che nel tempo possono modificarsi e che spesso sono compresenti nello stesso verbo in diversa costruzione;

– l’insieme del verbo e dei suoi argomenti costituisce il NUCLEO DELLA FRASE.

Resta valida, naturalmente, la ripartizione più generale dei verbi tra predicativi (che “predicano” un significato ben preciso) e copulativi (che hanno un debole significato proprio e funzionano come “copula” cioè legame); e permane la distinzione tra uso per così dire naturale e uso pronominale dei verbi (quell’uso che mediante una particella pronominale indica una particolare “ricaduta” dell’evento sul soggetto).

La forte schematizzazione della struttura del nucleo della frase ricavata dal modello valenziale offre due vantaggi di particolare rilievo:

– permette di distinguere nettamente la struttura portante della frase dagli altri elementi che ad essa si possono aggiungere, fino a far nascere da una frase semplice una frase complessa (vedi il paragrafo 5), e quindi rende evidenti i punti di maggiore articolazione della frase, segnalati parlando dalla prosodia e scrivendo dalla punteggiatura;

– riconduce a una formula unificante una serie di strutture apparentemente molto diverse: il concetto generale di “argomento” permette infatti di comprendere in questa categoria funzionale anche tutte le frasi completive: la soggettiva, che occupa il posto dell’argomento soggetto (una lunga passeggiata / passeggiare a lungo distende i nervi); l’oggettiva, l’interrogativa diretta o indiretta e perfino una frase imperativa preceduta da un verbo di comando, che occupano il posto dell’argomento oggetto (aspetto l’arrivo del treno / aspetto che arrivi il treno; ti chiedo: “è vero?” / ti chiedo se è vero; ci ordinò la ritirata / ci ordinò : “ritiratevi!” / ci ordinò di ritirarci); altri tipi di frase, che possono occupare il posto di un argomento preposizionale (speravo nel tuo aiuto / speravo che mi aiutassi).

Si tratta, insomma, di un modello sintetico, preciso e chiaro, che, partendo dal verbo, permette di collocare in un’unica prospettiva tutti gli elementi di una frase anche molto estesa; un modello che si applica all’italiano e a molte altre lingue (compresi il latino e il greco) e che perciò rende facile il confronto con esse sul piano della sintassi della frase.

Naturalmente, la descrizione delle costruzioni dei verbi data nel Dizionario rispecchia la struttura di una frase di valore assertivo, di forma attiva e basata su un solo predicato (frase singola o “semplice”). Una frase di questo tipo può trasformarsi, con vari procedimenti, in frase interrogativa, esclamativa o imperativa e, se il verbo è transitivo, può assumere la forma passiva.

4. LA CLASSIFICAZIONE DEI VERBI

Nei tre sottoparagrafi che seguono sono presentati dapprima i verbi predicativi (distinti nelle loro cinque classi fondamentali in base alla valenza), poi i copulativi e infine i verbi in forma pronominale. Per compiere con facilità la lettura delle voci dei verbi è importante cogliere i “segnali” che scandiscono le variazioni di costruzione (indicate con una losanga bianca) e tener conto delle indicazioni specifiche che si danno su taluni usi abituali. Infatti:

– ogni possibile costruzione del verbo è indicata da una formula di valenza e reggenza, del tipo sogg-v-arg, da leggere “questo verbo richiede un argomento soggetto e un argomento diretto”; oppure sogg-v-prep.arg, da leggere “questo verbo richiede un argomento soggetto e un argomento indiretto, cioè preceduto da preposizione” ecc.; si noti che l’abbreviazione prep trova riscontro nelle preposizioni (anche articolate) sottolineate negli esempi (ovviamente la preposizione non c’è negli esempi in cui l’argomento indiretto è rappresentato da un pronome atono “dativo” come mi, ti, gli, le, ci, vi, loro, o da ci locative o da ne);

– dopo gli esempi che illustrano la costruzione tipo di quel verbo, si segnalano usi che abitualmente sottintendono alcuni argomenti (si annota “spesso con arg. sottinteso” o “in situazione nota con uno degli arg. sottinteso”), oppure si fa osservare (con l’annotazione “freq. con specificazione del mezzo usato”) che agli argomenti vengono spesso aggiunti elementi che specificano un aspetto dell’azione compiuta.

Presentando le classi, indichiamo un verbo di riferimento, diamo un esempio di nucleo costruito con tale verbo e i suoi argomenti e forniamo la formula che riassume tale costruzione.

4.1 Verbi predicativi

Verbi zerovalenti: gli impersonali

Sono gli impersonali come piovere (e nevicare, tuonare, albeggiare ecc.), che esprime il suo significato senza nessun elemento aggiunto: piove (o pioveva, pioverà ecc.) è di per sé un’espressione completa, è già un nucleo di frase. La formula che descrive quest’uso è non sogg-v, da leggere: “questo verbo non richiede neppure il soggetto”.

Non tutti i verbi impersonali sono zerovalenti. Ad es., se usato metaforicamente, piovere diventa monovalente intransitivo (piovono sassi) e la sua formula è sogg-v. Similmente, pochi verbi di varia valenza e forma possono assumere valore impersonale e o mancare di un soggetto, come andarne e trattarsi, o esprimerlo non tramite elemento nominale ma con frase (sembrare, parere). Questi verbi richiedono anche di essere completati con un argomento indiretto (ne va della salute; gli pare di aver fatto bene) e la loro formula è non.sogg-v-prep.arg.

I verbi impersonali o con valore impersonale hanno in comune il vincolo della terza persona singolare o del modo infinito, l’assenza di un soggetto personale o la sua espressione tramite frase, detta appunto soggettiva.

Verbi monovalenti intransitivi

Sono gli intransitivi come sbadigliare (e tossire, dormire, nascere, morire ecc.), usando il quale bisogna indicare solo “chi sbadiglia”: Mauro sbadiglia. La formula della costruzione è sogg-v, da leggere: “questo verbo richiede solo il soggetto”.

Verbi bivalenti transitivi e intransitivi

a) Sono i transitivi come amare (e odiare, pulire, aprire, chiudere, toccare ecc.), usando il quale bisogna indicare “chi ama” (1º argomento soggetto) e “che cosa o chi è oggetto dell’amore” (2º argomento, detto oggetto diretto): Valeria ama la musica. La formula della costruzione è sogg-v-arg, da leggere: “questo verbo richiede il soggetto e un argomento connesso direttamente al verbo”. Tra i verbi bivalenti transitivi segnaliamo quelli come eleggere, nominare, denominare ecc., che integrano il 2º argomento con un suo complemento predicativo, come in questo esempio: l’assemblea ha eletto Giorgio presidente; la formula diventa sogg-v-arg+compl.pred.

b) Sono gli intransitivi come andare (e venire, cadere, salire ecc.), usando il quale, nel significato di “muoversi verso un luogo”, bisogna indicare “chi va” (1º argomento soggetto) e “dove va” (2º argomento indiretto): Giulia va a Venezia. La formula della costruzione è sogg-v-prep.arg, da leggere: “questo verbo richiede il soggetto e un argomento collegato al verbo mediante una preposizione”. Il verbo andare ha però altri due significati ben diversi: 1) “funzionare, andar bene, aver corso”, come in il motore va oppure i miei affari vanno o queste monete vanno ancora, significato in cui il verbo è monovalente, e quindi la sua formula è sogg-v; 2) “coprire la distanza tra due punti”, come in questo autobus va dal centro alla stazione, significato in cui diventa trivalente e la sua formula è sogg-v-prep.arg-prep.arg. Tra gli intransitivi bivalenti, i verbi costare, pesare, valere, misurare e qualche altro sono seguiti da un argomento senza preposizione, che però non è oggetto diretto, ma indica una misura (di prezzo, peso, distanza ecc.) come specificato nella definizione.

Verbi trivalenti transitivi e intransitivi

a) Sono i transitivi come dare (e regalare, attribuire, inviare, dichiarare, dire, collocare ecc.), usando il quale bisogna indicare “chi dà” (1º argomento soggetto), “che cosa” (2º argomento diretto) e “a chi” (3º argomento indiretto): Piero dà un libro a Maria. La formula della costruzione è sogg-v-arg-prep.arg, da leggere: “questo verbo richiede il soggetto, un argomento collegato direttamente al verbo e un altro collegato mediante una preposizione”.

b) Sono alcuni intransitivi come passare nel significato di “spostarsi da un luogo all’altro o da una condizione all’altra” (diverso dal sign. transitivo di “trasmettere”) (e altri verbi di moto come saltare, scendere, salire, andare nell’ultimo esempio già dato), usando il quale bisogna indicare “chi si sposta” (1º argomento soggetto), “da dove” “a dove” (2º e 3º argomenti indiretti): Luca è passato dalle Ferrovie alle Poste. La formula della costruzione è sogg-v-prep.arg-prep.arg, da leggere: “questo verbo richiede il soggetto e due argomenti entrambi collegati al verbo mediante una preposizione”.

Verbi tetravalenti transitivi

Sono i transitivi come trasferire (e trasportare, tradurre, travasare e pochi altri), usando il quale bisogna indicare “chi trasferisce” (1º argomento soggetto), “che cosa o chi” (2º argomento diretto) , “da quale luogo o condizione” “a quale luogo o condizione” (3º e 4º argomenti indiretti): l’Agenzia ha trasferito la sede da Torino a Bologna. La formula della costruzione è sogg-v-arg-prep.arg-prep.arg, da leggere: “questo verbo richiede il soggetto, un argomento collegato direttamente al verbo e altri due argomenti collegati mediante una preposizione”.

4.2 Verbi copulativi

Sono denominati copulativi quei verbi, come essere, sembrare, diventare e pochi altri, che fanno da semplice legame (copula) tra un soggetto e un altro elemento. Essi si comportano come i bivalenti transitivi, ma al posto del 2º argomento hanno un elemento (solitamente un aggettivo o un nome) che funziona da complemento predicativo del soggetto, cioè attribuisce una qualità o condizione al soggetto (col quale, infatti, perlopiù è concordato): Luigi è stanco, oppure i vestiti sembrano sporchi, oppure Carlo è diventato ingegnere. La formula della loro costruzione è sogg-v+compl.pred, da leggere: “questo verbo ha bisogno del soggetto e di un complemento predicativo concordato con quest’ultimo”.

Alcuni verbi, pur non essendo pienamente copulativi, acquistano funzione copulativa con un cambiamento sintattico, sempre segnalato in questo dizionario: è il caso del verbo fare, che è predicativo quando significa “costruire, combinare qualcosa” e copulativo quando significa “svolgere un’attività, esercitare una professione, ricoprire una carica”: Luigi fa l’architetto, Mario fa il sindaco, oppure “assumere un certo atteggiamento”: Aldo fa il furbo.

4.3 Verbi in forma pronominale e procomplementare

Molti verbi predicativi si usano anche accompagnati da una particella pronominale (lavare/lavarsi, vestire/vestirsi, annoiare/annoiarsi, divertire/divertirsi, allontanare/allontanarsi ...) e alcuni verbi si usano solo, tranne che nei costrutti con fare causativo, con tale particella (pentirsi, vergognarsi, ribellarsi ...): sono tutti classificati come verbi pronominali.

La costruzione sintattica dei verbi pronominali è descritta dalla formula usata per tutti gli altri predicativi, nei modi seguenti: se il solo argomento di cui hanno bisogno è la particella pronominale stessa (unita nel lemma), come in lavarsi, la formula è sogg-v; se sono accompagnati da un ulteriore argomento, come in lavarsi le mani, la formula è sogg-v-arg, da leggere: “questo verbo richiede, oltre al pronome che lo accompagna, anche un argomento diretto”, e se l’argomento è preposizionale, come in pentirsi di un errore, la formula è sogg-v-prep.arg.

Sono lemmatizzati con altrettanto chiara evidenza anche verbi cui si aggregano più particelle pronominali (per esempio andarsene, restarsene) o che, in certi significati, richiedono particelle avverbiali (farci, entrarci) o entrambi i tipi di particelle (farcela, volercene); questi verbi sono tutti classificati, secondo le indicazioni della moderna linguistica, come verbi procomplementari.

5. GLI ALTRI ELEMENTI DELLA FRASE OLTRE IL NUCLEO: CIRCOSTANTI ED ESPANSIONI

Al nucleo della frase come lo abbiamo descritto fin qui si possono aggiungere molti altri elementi, che sono però altra cosa dagli argomenti del verbo. Tali elementi aggiuntivi si distribuiscono su due piani diversi.

a) Vi sono elementi che si agganciano direttamente (come aggettivo, apposizione, espressione preposizionale, frase relativa) a un singolo argomento per specificarlo. La frase Piero dà un libro a Maria può essere arricchita da vari elementi (qui sottolineati), per esempio mio cugino Piero dà un libro d’arte a Maria sua zia. L’apposizione sua zia può a sua volta essere trasformata in una frase relativa: che è sua zia. Questi elementi, agganciati a singoli componenti del nucleo, si collocano perciò tutt’intorno ad esso e prendono il nome di circostanti del nucleo: creano una specie di nucleo arricchito.

b) Vi sono altri elementi che invece si affiancano liberamente all’intero nucleo e possiamo dire che gli girano intorno come satelliti: sono espressioni varie, introdotte spesso da preposizioni, che si adattano bene con il loro significato ad ampliare il concetto espresso dal nucleo, ma non hanno un legame sintattico con nessuno dei suoi elementi, tant’è vero che si possono spostare con molta libertà. Ad esempio, la frase precedente si può ampliare ancora in questo modo: ogni anno, per la biblioteca scolastica, mio cugino Piero dà un libro d’arte a sua zia Maria. Le espressioni ogni anno e per la biblioteca scolastica si possono collocare variamente: tutte all’inizio (come abbiamo già fatto), tutte alla fine (mio cugino Piero dà un libro d’arte a sua zia Maria, ogni anno, per la biblioteca scolastica) oppure sparse qua e là (mio cugino Piero dà, ogni anno, a sua zia Maria un libro d’arte per la biblioteca scolastica) o in altri modi ancora. Questi elementi che ruotano liberamente intorno al nucleo prendono il nome di espansioni.

È importante rendersi conto che le espansioni si possono trasformare quasi sempre in frasi dipendenti: per la biblioteca scolastica può diventare, ad esempio, per potenziare la biblioteca scolastica (che è una frase finale). Da una frase semplice (con un solo verbo) è nata così una frase complessa.

Tutto il processo di crescita della frase a partire dal nucleo si può osservare bene nella rappresentazione grafica mostrata in figura.

6. CHE COSA SONO I TRADIZIONALI “COMPLEMENTI”

Illustrando la struttura della frase secondo il modello valenziale non abbiamo avuto bisogno di introdurre i tradizionali e numerosissimi “complementi”. Molti elementi nominali (spesso preceduti da preposizione) che vediamo anche in quest’ultima rappresentazione grafica hanno certamente in sé un significato che possiamo definire come “termine” (a Maria), “specificazione di argomento o materia” (d’arte), “tempo” (ogni anno), “scopo” (per la biblioteca scolastica): sono dei tipici “complementi”, secondo la denominazione della grammatica tradizionale. Tuttavia, nella nostra descrizione della struttura della frase non abbiamo utilizzato tale termine, e ciò per due motivi:

a) classificando tali espressioni come “complementi di termine” ecc., noi ne interpretiamo il contenuto concettuale, ma non abbiamo affatto indicato quale sia la loro funzione nella struttura della frase. Il criterio delle valenze del verbo permette invece di individuare proprio la funzione sintattica dei singoli elementi e quindi di disegnare la struttura della frase: ad esempio, ci aiuta a distinguere tra la funzione che l’espressione in campagna ha nella frase Piero risiede in campagna, dove è un argomento indiretto essenziale richiesto dal verbo, e nella frase in campagna Piero dorme più a lungo, dove ha il ruolo di un’espansione (che indica, tra l’altro, luogo e tempo: “quando è in campagna”);

b) non è sempre facile definire i contenuti concettuali delle espressioni che chiamiamo complementi: l’espressione alla griglia, nel sintagma pesce alla griglia, indica contemporaneamente un “modo” di cucinare il pesce, il “luogo” su cui è stato posto e un po’ anche il “mezzo” che ha permesso quel tipo di cottura.

In definitiva, la classificazione tradizionale dei complementi è un’operazione condotta sul piano della semantica, utile per mettere in rapporto i vari concetti contenuti in una frase, ma non per disegnare la sua struttura sintattica. Il modello valenziale ci presenta invece proprio tale struttura.

La descrizione dei singoli complementi è comunque data nel Dizionario sia nelle voci delle preposizioni che li individuano, sia nelle rispettive voci lessicali (abbondanza, agente, allontanamento ecc.), con riflessioni in dettaglio nell’area di approfondimento.

Le proprietà argomentali dei verbi sono spesso trasferite anche su nomi e aggettivi che da essi derivano o con cui sono in rapporto etimologico. Di qui numerosi problemi nell’individuazione di certe reggenze da questi richieste, esplicitate nel Dizionario tramite l’indicazione della preposizione necessaria, quando su di essa possono esserci dubbi o quando cambia al mutare del significato della parola cui si aggrega (devoto, difficoltà, immigrazione, inadeguato, pertinente, pietà, sensibilità ...).

II - LA LINGUA NELLA REALTÀ DEL “TESTO”

1. LE VARIAZIONI DOVUTE ALLE REGOLE DELLA COMUNICAZIONE

La conoscenza della lingua come sistema virtuale (di cui abbiamo parlato finora) è indispensabile ma non basta per arrivare a padroneggiare appieno l’uso della lingua, perché quando la lingua viene usata per comunicare realmente, presenta fenomeni che non si spiegano con le regole della pura grammatica bensì con quelle della comunicazione. Queste altre regole rispondono ai principi, propri della comunicazione, dell’economia e dell’efficacia, i quali inducono soprattutto a compiere ellissi, cioè a saltare o abbreviare alcuni passaggi della struttura tipo: il risultato è che, in superficie, la lingua spesso sembra ben diversa da come la descrive la “grammatica”.

La prospettiva nella quale si studia la lingua nel processo comunicativo si definisce appunto comunicativa, o anche pragmatica o anche testuale, con riferimento al testo. Si può definire “testo” UN MESSAGGIO DI QUALSIASI DIMENSIONE, PRODOTTO SULLA BASE DI UN SISTEMA LINGUISTICO, DA UN DETERMINATO EMITTENTE IN UNA DETERMINATA SITUAZIONE, CON L’INTENZIONE E CON IL RISULTATO DI SODDISFARE LE ATTESE DI UN DETERMINATO DESTINATARIO. Per intenderci: costituisce un testo sia un semplice “Ciao” detto incontrando una persona, sia un’intera conferenza, o un articolo di un giornale, o un romanzo. Naturalmente, esistono vari tipi di testo, i quali si distinguono, fondamentalmente, proprio in rapporto alla minore o maggiore incidenza dei fenomeni di ellissi, che è ciò che li rende più “rigidi” o più “elastici”.

Anche un testo può essere articolato in segmenti, che talvolta corrispondono formalmente a una frase tipo, ma spesso hanno altra conformazione: essi acquistano significato dal rapporto con gli altri segmenti, sia adiacenti che distanti, e con l’intero testo. A questi segmenti, che pure vengono chiamati comunemente “frasi”, si deve dare un nome diverso: preferibile quello di enunciati.

Stabilito quanto sopra, lo studio dell’uso comunicativo della lingua deve tener conto delle trasformazioni che avvengono, come si è detto, sulla superficie della lingua. Già nella descrizione della struttura verbo-argomenti abbiamo accennato al fatto che “in situazione” a volte gli argomenti vengono sottintesi, e il nostro Dizionario segnala questo fenomeno. Ma altri vistosi fenomeni, dovuti alla “testualità”, riguardano l’impiego delle congiunzioni, degli avverbi, di varie locuzioni avverbiali e dei pronomi. Nella realtà del testo, questi elementi possono variare la loro funzione grammaticale e assumere quella (per usare un termine riassuntivo) di connettivi testuali.

Il nostro Dizionario ha dedicato per primo, e in modo sistematico, attenzione a questi fenomeni, introducendo nelle voci di questi elementi lessicali una sezione specifica che illustra il loro uso “in funzione testuale”, con tutte le conseguenze morfosintattiche e prosodiche (e d’interpunzione) del caso.

Esemplifichiamo qui di seguito il valore testuale di alcuni elementi delle quattro categorie.

2. IL VALORE TESTUALE DELLE CONGIUNZIONI

Prendiamo un esempio particolarmente evidente, quello del benché con valore testuale. Sappiamo, dalla grammatica, che le frasi concessive sono introdotte da congiunzioni come benché o sebbene che richiedono il congiuntivo e sappiamo anche che c’è un tipo di frase ipotetica che si costruisce con il congiuntivo imperfetto e il condizionale. Ecco allora una frase complessa (fatta di più frasi) costruita secondo queste regole: andrò a trovare Luigi, benché ti debba confessare (frase concessiva) che, se potessi, ne farei volentieri a meno (frase ipotetica). Lo stesso concetto, però, più spesso lo esprimiamo saltando dei passaggi: andrò a trovare Luigi, benché ne farei volentieri a meno. Qui sono state soppresse: la frase concessiva (ti debba confessare), la congiunzione che, che la lega al seguito, e la protasi della frase ipotetica (se potessi). Di conseguenza, la congiunzione benché sembra reggere il condizionale! In realtà, per effetto delle due ellissi, questa congiunzione ha cambiato funzione: non lega più la frase reggente alla dipendente concessiva, ma serve a collegare due segmenti di testo e ha lo stesso valore di “ma”, “però”, “tuttavia”, che sono coordinanti. È diventata una congiunzione testuale (come la classifichiamo noi nel Dizionario), tanto che può essere anche isolata da due pause (e relativi segni di interpunzione): andrò a trovare Luigi. Benché, ne farei volentieri a meno.

L’acquisizione di una funzione testuale da parte di una congiunzione originariamente dotata di funzione grammaticale è assai frequente ed è confermata da esempi d’autore anche antichi (ciò che toglie ogni dubbio sulla sua liceità, almeno in tipi di testo più “elastici”). Il nostro Dizionario illustra questo fenomeno per moltissime congiunzioni: si vedano, tra le altre, oltre alla voce benché, anche le voci sebbene, anche se, ancorché (tutte concessive), perché, quando, e, ma, però, tuttavia, nonostante, sennonché, sicché, cosicché, comunque, ecc.

3. AVVERBI E LOCUZIONI AVVERBIALI COME CONNETTIVI TESTUALI

Un fenomeno simile si ha con parecchi avverbi. Nella frase Franco lavora onestamente l’avverbio di modo specifica il significato del verbo ed è a esso collegato in posizione fissa. Ma nell’enunciato onestamente, Franco lavora lo stesso avverbio ha un valore diverso, perché sta al posto di una intera frase del tipo “devo dire onestamente che” (è riferito a me che parlo, non a Franco) e si può collocare liberamente in vari punti, purché venga isolato prosodicamente (per iscritto mediante virgole): Franco, onestamente, lavora; Franco lavora, onestamente. Questo secondo valore (detto anche “frasale”) dell’avverbio è indicato nel nostro Dizionario tutte le volte che si presenta: si vedano anche le voci francamente, praticamente, sinceramente, stranamente, naturalmente, ovviamente ecc.

Hanno questo stesso valore testuale elementi, a volte di più pezzi, che vengono spesso trattati insieme con le congiunzioni grammaticali o addirittura ignorati, mentre il loro statuto è tipicamente testuale: come infatti, altrimenti, anzi, dunque, in verità, in effetti, in realtà, d’altra parte ecc.

Una categoria affine alla precedente è quella dei segnali discorsivi, cioè di quegli elementi (voci verbali o altro) che servono soprattutto ad avviare un discorso, a stabilire un contatto con l’interlocutore e talvolta solo a prendere tempo: guarda, senti, vedi, sa, sai, sapete, bada; dico, diciamo; capisci; no, ; bene, beh (come segnale di avvio a una conclusione); ecco; che (anteposto alle domande dirette); allora, dunque (in espressioni di sollecitazione o di ricapitolazione).

4. I PRONOMI CHE ANTICIPANO O RIPETONO IL “TEMA”

In una frase fuori situazione le informazioni sono tutte sullo stesso piano di importanza. Nella comunicazione reale, invece, c’è sempre un’informazione già “nota”, che fa da base di appoggio, e un’informazione “nuova”, quella che si vuole fornire o è attesa. Con terminologia specifica, il noto viene denominato tema e il nuovo rema. Nella costruzione lineare della lingua italiana si avverte come nota l’informazione che viene per prima e come nuova quella che viene per seconda: la sequenza Luigi parte ci dice che la persona nota con quel nome (tema) “parte” (rema); la sequenza parte Luigi ci dice che, essendo noto che qualcuno parte (tema), chi lo fa “è Luigi” (rema). Ma oltre che con l’ordine sintattico, la distinzione tra noto e nuovo può ottenersi in altri modi: marcando con l’intonazione il rema, pur tenendolo in posizione iniziale: LUIGI parte; oppure con la cosiddetta frase scissa, la quale è composta di due parti, di cui la prima, introdotta dal verbo essere, presenta il rema, e la seconda, introdotta da un che polivalente, contiene il tema: è Luigi che parte. (Questo tipo di frase, ritenuta a torto un “francesismo” da evitare, è presente in italiano almeno fin dal ’300: vedi la voce scisso).

Quando il discorso si sviluppa con una certa ampiezza, o anche soltanto si svolge in una situazione in cui alcune informazioni sono presupposte, si fa largo uso della frase segmentata. In questa l’elemento noto viene dislocato all’inizio (come punto di riferimento) o alla fine (come puro richiamo) dell’intera struttura ed è separato con una pausa (in posizione finale anche con un’intonazione bassa) dall’informazione nuova, ma le due parti sono collegate da un pronome di ripresa o di anticipazione: per esempio il caffè, l’ho già preso, o l’ho già preso, il caffè; a teatro ci vado spesso, o ci vado spesso, a teatro. Questa struttura (a cui appartiene anche la forma priva di concordanza sintattica, detta anacoluto) è presente in molte lingue: in italiano è attestata ininterrottamente da tempi remoti e ricorre largamente anche nei classici. È il fenomeno che coinvolge in particolare i pronomi personali, e tra l’altro è all’origine dell’uso di lui, lei, loro come soggetti: nel nostro Dizionario è illustrato ripetutamente sotto le voci dei pronomi personali e nelle voci della relativa terminologia, come anacoluto, segmentato, tema, rema.

Si noti, infine, che la costruzione della frase segmentata consente di dare all’elemento “paziente” (che “subisce l’azione”) il ruolo di soggetto grammaticale, esattamente come accade nella costruzione passiva: questo palazzo lo ha costruito mio nonno equivale a questo palazzo è stato costruito da mio nonno.

III - ASPETTI PARTICOLARI DEL LESSICO

1. LA “DISPONIBILITÀ “ DELLE PAROLE

La “disponibilità” di una parola non coincide con la frequenza del suo uso. La frequenza si calcola sulla base di un corpus di testi, ma per quanto questo possa essere vasto e vario, potrebbero figurarvi come rare, o non figurarvi affatto, parole – per esempio saliera, panciotto, vanga – in realtà ben note alla stragrande maggioranza dei parlanti; e, al contrario, potrebbero figurarvi come piuttosto frequenti parole legate a un’attualità che dopo la costituzione del corpus è nettamente scemata. La “disponibilità” riguarda invece la presumibile conoscenza e comprensione delle parole da parte di un determinato pubblico. Segnalare tale parte del lessico, come abbiamo fatto in questo Dizionario, risponde perciò a uno scopo eminentemente pratico: fornire a particolari categorie di utenti della lingua – tutti coloro che comunicano ampiamente con il pubblico: giornalisti, redattori di testi in genere – una generica indicazione sui VOCABOLI CHE SI PRESUMONO CONOSCIUTI E BEN COMPRESI DA UN PARLANTE DI CULTURA MEDIA, per suggerire di preferirli, in determinate circostanze, ad altri meno noti, oppure di dotare questi ultimi di spiegazione. Non si è inteso dunque costituire un “vocabolario di base” a fini didattici, anche se si possono fare interessanti ricerche ed esercizi isolando nell’interrogazione telematica proprio questa porzione del lessico e confrontandola con l’altra.

Hanno ricevuto il contrassegno di alta disponibilità (un pallino a fianco del lemma nell’indice) circa 10.000 parole, a partire da liste di frequenza e studi sulla disponibilità del lessico. Non sono stati inclusi termini tecnici (dei linguaggi settoriali o speciali), in quanto questi sono di per sé legati al contenuto di certi discorsi e quindi non sono sostituibili (se non con lunghe parafrasi). Per ragioni inverse, non sono stati inclusi i numerali, in quanto questi, pur avendo indici di frequenza certamente molto diversi tra loro, sono però tutti potenzialmente di alta disponibilità.

2. LE UNITÀ POLIREMATICHE

Le parole di cui si compone una lingua non sono soltanto quelle che ci appaiono come corpi unitari, tali per antica costituzione (acqua, giorno, impossibile, correre) o per la forma grafica compatta ormai raggiunta (cassaforte, colabrodo, soprattutto, poiché; qualcuna magari con variante ancora in forma separata, come a capo rispetto ad accapo). Sono vere parole anche le numerosissime entità composite, costituite da due o più corpi separati nella grafia, ma che si comportano come un tutt’uno. Tali entità – denominate “unità lessicali superiori” o “lessemi complessi” o, più tecnicamente, unità polirematiche – sono molto diverse sotto due aspetti:

– per il tipo di formazione, potendo essere formate da nome+agg., nome+nome, nome+prep.+nome, nome+cong.+nome, verbo+nome ecc.;

– per la funzione grammaticale, potendo avere valore di: sostantivo (stato civile, fumata bianca, pubblica sicurezza, pronto soccorso, divano letto, busta paga, monte premi, cavallo di battaglia); aggettivo ([automobile] chiavi in mano; [fazzoletti] usa e getta); verbo (voler bene “amare”; metter dentro “incarcerare”); avverbio ([scagliarsi] a testa bassa; [accettare] a occhi chiusi); esclamazione (mamma mia!); preposizione (a causa di “per”; in fatto di “circa”; diversamente da; fatta eccezione per); congiunzione (dato che, posto che, visto che “poiché”; una volta che “quando” o “poiché”); congiunzione testuale (tutto sommato; fatto si è che; se non altro; per cui).

Le unità polirematiche sostantivali, aggettivali, avverbiali e verbali sono riconoscibili per le seguenti caratteristiche (non tutte compresenti): il significato dell’insieme è spesso figurato; l’ordine dei costituenti non è modificabile; i costituenti non possono essere sostituiti con sinonimi, iperonimi o alterati (cavallo di battaglia non può diventare equino o animale o cavallino di battaglia); non è possibile inserire al loro interno alcun elemento (da busta paga non si può avere busta ricca di pagabusta di ricca paga, ma solo ricca busta paga o busta paga ricca); tranne i pochi casi con l’aggettivo anteposto, è il secondo elemento che specifica il primo: ossia ha funzione di “determinante” rispetto al primo, che risulta “determinato”.

Si tratta di un materiale vastissimo, su cui soltanto in epoca recente si sono concentrate le ricerche e a cui va dato, in lessicografia, un rilievo maggiore di quanto si sia fatto in passato.

In questo Dizionario sono trattate come veri e propri lemmi autonomi le unità polirematiche sostantivali, cioè quelle parole plurime (della lingua più comune o dei linguaggi tecnici e settoriali) che indicano oggetti, fenomeni, istituzioni, condizioni, processi, piante o animali (carta da bollo, cuoio capelluto, ferro di cavallo, porcellino d’India, punto di vista, stella alpina ...) e i verbi cosiddetti sintagmatici, cioè quelle diffuse combinazioni di verbo+avverbio (mettere avanti, saltare fuori, tagliare via ...) che hanno ormai acquisito un significato unitario.

All’interno delle parole piene che le sviluppano, ma con grande evidenza, sono trattate anche le unità polirematiche grammaticali, ossia le locuzioni che hanno valore di preposizione, di congiunzione o di congiunzione testuale (a conti fatti, a costo di, di modo che, nella misura in cui ...).

Ben diverso è il caso delle espressioni idiomatiche, tutte di senso figurato, che appartengono alla lingua comune e sono in genere ben familiari ai parlanti (essere un pozzo di scienza; dare carta bianca; andare per le lunghe; tendere la mano; voltare pagina; cambiare registro. Come appare evidente, queste fanno nesso fisso con un verbo). Anche queste trovano comunque largo spazio nel nostro Dizionario.

L’attenzione alle strutture e al funzionamento del sistema della lingua e alle variabili più frequenti nel suo impiego nella comunicazione non ha fatto, ovviamente, trascurare la revisione e l’aggiornamento del lessico, accogliendo anche in questa edizione molti neologismi. Ricordiamo (solo per ricordarne alcune)

– le novità di boomer, bullizzare, cancel culture, catcalling, climate change, cluster, coworking, criptovaluta, DAD, dissare, droplet, emojii, femmicidio, fake news, gigafactory, influencer, infodemia, lockdown, medicane, meme, metaverso, monogenitore, navigator, pinsa, poke, stalkerare, smart working, transfobia, trap, webinar;

– la revisione o integrazione della definizione di voci, come booster, confinamento, extragettito, generazione, ibrido, istanza, maschera, narrazione, negoziabile, plug-in, prossimità, remoto, resilienza, rider, rinnovabile, spillover, spacchettare, stellato, virale, vocale, zero;

– l’ampliamento dei lessemi complessi ospitati all’interno delle voci come in ateo (ateo devoto), body (body shaming), chilometro (chilometro zero), climatico (cambiamento climatico), diritto (diritto all’oblio), economia (economia verde), frugale (paesi frugali), identità (identità digitale), nativo (nativo digitale), reddito (reddito di cittadinanza), stabilità (patto di stabilità), transizione (transizione ecologica).

In conclusione, riaffermiamo che un dizionario di italiano non dovrebbe essere un regesto di parole che vanno e vengono nel giro di pochi anni né un deposito passivo dove si cercano e si trovano “risposte chiuse”. Ma è e dovrebbe sempre di più diventare uno strumento aperto, amichevole, per conoscere e studiare la nostra lingua, messo in funzione e sfruttato a fondo da chi lo consulta.

Francesco Sabatini
Vittorio Coletti
Manuela Manfredini

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